L'ORSO AZZURRO
Breve storia di una fotografia
COLLANA «TEA AVVENTURE» - TEA
pp.335 – 6,80 euro
L'orso azzurro era l'Araba Fenice di Michio Hoshino: "Che ci sia ciascun lo dice: dove sia nessun lo sa". "Hai mai visto un orso dei ghiacciai?", aveva così domandato a bruciapelo il grande fotografo naturalista giapponese a Lynn Schooler, la guida che l'aveva accompagnato durante un mese di riprese in Alaska.
Hoshino sognava di riuscire a catturare nel suo obiettivo l'orso azzurro, detto anche orso dei ghiacciai, il mitico animale delle nevi che gli indiani Tlingit "consideravano frutto di un incrocio tra il comune orso nero e la capra di montagna" e chiamavano klate-utardy-tseek, orso nero color della neve. Da quel giorno un piccolo tarlo si inserisce nella mente di Lynn, che vive in Alaska dal 1969 (lo chiamano l'Indiana Jones del Grande Nord) e che, prima dell'incontro con Michio, come racconta nel suo libro L'orso azzurro- Breve storia di una fotografia, edito in Italia da Guanda, non era "neppure certo di sapere con precisione cosa fosse un orso dei ghiacciai" e considerava "la possibilità di avvistarne un esemplare nel suo ambiente (...) remota quanto quella di incontrare un leopardo delle nevi o uno yeti". La caccia va avanti per anni, scandita dagli inverni, dagli incontri, dalle spedizioni e dalle telefonate di Michio, dal piacere di ritrovarsi insieme una stagione dopo l'altra. Il giovane saggio giapponese, maestro nell'arte di raccontare storie attraverso le foto, e il curioso americano, ghiotto di natura, dividono l'angusto spazio della barca-casa di Lynn, la "Wilderness Swift", che nei periodi di riposo è ancorata a Juneau, e tra loro nasce una profonda amicizia. La ricerca del klate-utardy-tseek è qualcosa di più e qualcosa di meno di un pretesto. Altre passioni prendono vita, per esempio il desiderio di Lynn di imparare a fare fotografie.
Ma è solo l'inverno dopo la morte di Hoshino, ucciso da un grizzly in Kamchatka nel 1996, che Lynn riesce a fotografare l'orso azzurro: "Il mio stato d'animo oscillava tra la vibrante eccitazione - finalmente, finalmente - e un lieve, amaro risentimento: ero infine riuscito a vedere l'orso azzurro, sì, ma in compagnia di persone con le quali non avrei mai potuto stabilire un'autentica intesa". Così Lynn si accorge che "ad avere importanza era stata l'esperienza della ricerca in se stessa, e la persona con la quale l'avevo condivisa. Ad avere importanza era quello che avevo visto e fatto durante il cammino". Certo, è una storia da brividi. Brividi di freddo i primi, i più ovvii, visto che si svolge in terre di ghiacci e ghiacciai. Brividi di avventura, poi, anche se, curiosamente, di se stesso Lynn dice "non sono un uomo molto coraggioso". Brividi di emozione, infine, perché questa, prima ancora che la storia di una fotografia, come dice il titolo italiano del libro, è una storia di amicizia, di amore e di dolore. "L'orso azzurro - spiega Lynn - è una storia su come si impara a credere - a credere negli altri (quindi ad amarli) e nella vita (a credere che ci darà tutto ciò di cui abbiamo bisogno). In quei rari momenti in cui possiamo essere veramente aperti all'amore e alla fiducia - e per estensione, avere fede - la vita è meravigliosa!". Si può seguire come si segue una mappa: "Nel tracciato completo dei vari punti di una vita, il libro illustra il modo nel quale un evento, un'esperienza o una relazione conducono a un'altra e quella alla seguente, poi a un'altra ancora, ad infinitum". Si esprime proprio così, alla latina: ad infinitum... L'autodidatta senza titolo di studi, il drop-out ("come si dice negli Stati Uniti"), ovvero il ritirato, l'uomo per cui "la scuola è stata la vita stessa", rivela, oltre a una sensibilità straordinaria, anche una cultura fuori dal comune. "Per fortuna, fino a pochissimo tempo fa l'Alaska non era un posto dove le persone si giudicassero l'un l'altra in base al diploma o alla ricchezza, così tra i miei amici ci sono persone di ogni professione - pescatori, avvocati, dottori, idraulici, scienziati, registi, scrittori, cacciatori, antropologi, archeologi, tutte quelle che si possono immaginare - e da loro ho imparato molte cose. E poi il mondo stesso è la nostra migliore fonte di educazione, se abbiamo voglia di prestargli attenzione. Per quanto riguarda le altre culture, poi, mi è sempre piaciuto viaggiare in luoghi lontani, per vedere come le altre persone si inseriscano nel proprio ambiente naturale, e imparare". Anche per questo Lynn sembra un personaggio di fantasia. O, piuttosto, un nuovo Jack London. Non che lui sia tanto d'accordo su questa definizione: "Naturalmente, quando ero giovane, ho divorato i suoi libri, cento volte. Era bravissimo nel creare storie con temi forti e semplici e le scriveva in modo così pulito e preciso che la fantasia dei lettori completava le lacune ed era in grado di sentire il freddo o di udire lo sfrigolio di un silenzio artico - un talento che non sono sicuro di poter rivendicare. E forse un'altra differenza tra noi è che le sue storie erano spesso esempi di lotta dell'uomo contro la natura, mentre io volevo che L'orso azzurro parlasse del posto dell'uomo all'interno della natura". Lynn è una persona apparentemente semplice, che vive a bordo di una barca in un luogo in cui non ci sono strade, in un posto che riesce difficile persino immaginare come reale per chi quotidianamente è alle prese con la tangenziale di Milano o il raccordo anulare di Roma, quella Juneau, che, si intuisce, ama profondamente. "Qui il paesaggio è così dinamico, con queste montagne scabre, i campi di ghiaccio, e l'oceano che si fondono insieme a creare un mondo, bellissimo ma piuttosto rude, pieno di vita. Non c'è giorno in cui non mi capiti di vedere un'aquila, una balena, un leone marino, un orso, una capra di montagna o un cervo. E spesso accade di vedere uno di questi animali proprio in città. E ancora, per via della sua storia Juneau ha attratto un interessante miscuglio di popoli e culture, indiani americani, bianchi, filippini, ispanici, russi, che vivono tutti insieme e contribuiscono ciascuno a suo modo alla nostra cultura locale. Ma la cosa migliore è che devo fare pochissima strada per ritrovarmi "in the wilderness", nel cuore della natura selvaggia". Grazie alla sensibilità di Lynn, la sua storia si trasforma in un romanzo: "All'inizio mi sono sentito costretto a scrivere L'orso azzurro come omaggio al mio amico Michio Hoshino. È incominciato come un semplice racconto di alcuni dei nostri viaggi e delle nostre avventure insieme ma, come ho scritto, mi sono reso conto del fatto che la vera storia non stava semplicemente in quelle avventure, ma nell'effetto che la sua amicizia aveva avuto su di me. Questo ha richiesto che io facessi un percorso all'indietro e guardassi a quello che ero prima della sua amicizia - una persona molto appartata, distante dal punto di vista emozionale - e agli eventi che mi avevano formato. Per comprendere veramente il nostro rapporto, ho dovuto smontare ogni cosa fino a quando ho potuto capire in che maniera l'esempio della sua personalità e il modo di Michio di avvicinarsi alla sua propria vita mi avevano cambiato in qualcuno di molto più aperto e che ha voglia di vedere la bellezza della vita". Michio sembra, insomma, aver cambiato per sempre Mr. Schooler. Eppure solo per un periodo di tempo limitato, e ora concluso, l'Araba Fenice di Michio è diventata un tarlo per Lynn. Per l'uomo di Juneau, ormai, l'orso azzurro è tornato a essere soltanto un orso.
Da "La Repubblica"
L'AUTORE
LYNN SCHOOLER Pescatore, fotografo e guida turistica, vive da oltre trent'anni in Alaska. Ha vinto numerosi premi internazionali di fotografia.
STRALCI DI UN LIBRO
La fotografia contiene l'intera storia.
E quando mi trovavo in mezzo alla natura, sotto l’immensità del cielo e nell’abbraccio del vento, gioivo di quell’agognata solitudine senza sentirmi solo.
La natura cerca continuamente di farcelo capire: anche noi un giorno moriremo, ed è questo a farci desiderare di vivere davvero.
Stordito ed incredulo, mi chinai ed avvicina l'occhio al mirino. Mi ritrassi, stupefatto, guardai il ceppo e poi tornai ad osservare l'immagine ripresa dall'obiettivo. Ciò che vedevo nella macchina fotografica non aveva niente a che fare con quello che percepivano i miei occhi.
Una fotografia deve far pensare ad una storia.
Guarda quello che c’è, non quello che speri di vedere.
Una volta abbandonata la ricerca dell’immagine preconcetta, la capacità di distinguere la presenza degli animali aumenta in maniera esponenziale.
Quando si fotografa la natura, bisogna sempre aspettare un sacco di tempo.
In quello sconfinato paesaggio invernale tutto sembrava sul punto di cadere o in attesa di crollare, come se la gravità fosse più potente che in altre regioni meno selvagge, ma niente pareva in grado di distogliere il mio amico dalla sua risoluta determinazione a scattare la migliore fotografia possibile.
Dio, ti prego, aiutami ad essere come il mio cane creda che io sia.
M.O. “Se un certo luogo ha una grande importanza per te… diventa una tua responsabilità dedicargli un libro.Ci sono molte persone che non avranno mai la possibilità di vedere un paesaggio del genere… tutto cambia in continuazione.”
L.S. “Ma cosa c’entra questo con il fatto di pubblicare un libro?”
M.O. “Senza il libro, rischia di andare perduta tutta la… storia del luogo. Se si ama un luogo per ciò che può offrire, si ha la responsabilità di condividerne la bellezza con il nostro prossimo, e così facendo riusciremo forse a insegnare anche agli altri ad amarlo e ad averne cura".
Per sentirci a casa no sempre bisogna oltrepassare la soglia di una porta affacciata su un marciapiede. A volte ci sentiamo a casa in un vasto spazio che coincide con la volta celeste, uno spazio fatto dell’acqua che beviamo e del cibo che ci indurisce le ossa. A volte è l’insieme delle esperienza e dei ricordi a farci da casa, e a volte siamo a casa dovunque ci troviamo, purché ci stia accanto la persona giusta.
M.O. “Se non ci fosse nemmeno un orso in queste regioni, potrei andarmene a spesso in pace tra le montagne. Potrei accamparmi senza timori. Ma che luogo noioso diventerebbe l’Alaska. Qui la gente convive con gli orsi. C’è una certa diffidenza tra uomini e orsi. Una diffidenza da cui deriva un prezioso senso di umiltà. Gli essere umani continuano a domare e a soggiogare la natura. Ma quando ci troviamo nei pochi territori ancora selvaggi, là dove gli orsi vagano liberi, proviamo ancora un istintivo timore. Quanto dobbiamo tenere cara questa sensazione. E quanto dobbiamo apprezzare quei luoghi, e quegli orsi”.
...COME NASCE UNA FORESTA
I ghiacciai ritirandosi lasciano dietro di sé un paesaggio lunare di rocce nude e desolate, e laggiù il mondo sembrava ridotto a un universo di pietre e acqua tumultuosa. In un simile ambiente, per almeno dieci o vent’anni la vita sarebbe rimasta confinata in ambiti limitatissimi, producendo soltanto licheni, muschio e poche altre creature semplici in grado di sopravvivere in quella distesa di sterili detriti grazie ai minerali contenuti nelle rocce e ai gas dell’atmosfera.
Con il tempo, però, il lento accumulo di materiali organici tra le crepe e negli anfratti avrebbe creato una sorta di suolo povero di sostanze nutritive in cui sarebbero riusciti ad attecchire semi e spore portati dal vento o dagli uccelli. Una volta cresciuti i primi ciuffi d’erba o di fiori, si sarebbe formato altro terriccio ancora poco fertile, e nel giro di una cinquantina d’anni fitti cespugli di ontano avrebbero invaso il pianoro. Gli ontani producono un’abbondante quantità di foglie, che cadono al suolo, marciscono e fissano l’azoto nel terreno: così, qualche decennio più tardi, i semi degli alberi avrebbero potuto iniziare a germogliare e a mettere salde radici al suolo. Se i virgulti fossero sopravvissuti, crescendo in cerca di luce e innalzandosi al di sopra degli arbusti vicini, in una calda giornata d’estate le giovani conifere si sarebbero trovate cinte nell’abbraccio di una nube di polline dorato esplosa dalle ghiandole sessuali mature di lontani esemplari della stessa specie. In pochi giorni, la promessa di una foresta avrebbe inturgidito le pigne attaccate ai rami. Avrebbero fatto la loro comparsa scoiattoli e ghiandaie, intenti a tagliuzzare, beccare, scavare, mangiare e defecare spargendo dovunque i semi delle pigne gravide. Sarebbero spuntati altri virgulti, nuove pianticelle avrebbero raggiunto le dimensioni dei giovani alberi destinati un giorno a diventare abbastanza alti e robusti da sfiorare i vicini con i propri rami, relegando gli ontani nell’ombra e condannandoli così ad avvizzire e a morire per mancanza di luce.
Gli aghi d’abete sono molto acidi e cadendo al suolo per i successivi cento anni avrebbero gradualmente aumentato l’acidità del terreno, snaturandone la blanda alcalinità iniziale. Per un’ironia della sorte, l’abete rosso non tollera l’acidità – non ama i propri rifiuti – mentre l’abete canadese e il cedro sono acidofili. Questi intrusi si sarebbero mescolati ai predominanti abeti rossi, raggiungendo altezze considerevoli per poi precipitare al suolo abbattuti dalla violenza delle tempeste invernali. All’arrivo della primavera, la luce del sole, penetrando negli squarci provocati dalla caduta, avrebbe suscitato un rigoglio di mirtilli e di sanguinelli. Dopo una gravidanza di secoli, sarebbe finalmente nata una vera e propria foresta.